Cinegenia della mascherina

di Alberto Brodesco

Un film ambientato nel nostro presente può mostrare i personaggi senza mascherina? Al momento questa è senza dubbio la scelta prevalente, se si guardano le ultime uscite nelle sale cinematografiche e ai festival. Il cinema preferisce far finta che l’apparenza del mondo sia rimasta quella dell’era pre-Covid.

Se si intende il cinema come “intrattenimento” la scelta risulta abbastanza normale, in linea con il desiderio di regalare allo spettatore un po’ di evasione dalla realtà. Il cinema toglie la mascherina dagli schermi nel tentativo di riprodurre il sollievo che si prova quando ci si toglie la mascherina nella vita quotidiana. Come dimostra la salute del genere horror, anche la paura può essere un sollievo, se diversa da quella rappresentata dalla pandemia.

Bisogna poi aggiungere che la presenza della mascherina imporrebbe alla sceneggiatura di affrontare il tema del Covid, o almeno di non ignorarlo. Se le storie che si vogliono raccontare portano in direzioni che non hanno niente a che vedere con la pandemia non è facile renderle conciliabili con la presenza delle mascherine. Ma questo “non ignorare” il tema del Covid può certo assumere una sfumatura psicoanalitica, che richiama il concetto di denegazione, la volontà di cancellare una verità scomoda per il soggetto.

Più banalmente, va detto che la mascherina è tutt’altro che cinegenica. Un personaggio che indossa la mascherina è sic et simpliciter un personaggio meno bello. Nel cinema persino più che nella realtà è indispensabile vedere il viso. Il volto in primo piano è “immagine-affezione” (Deleuze, 1983), l’elemento emotivo che ci trascina dentro un film. D’altra parte anche nel mondo vero è impossibile rendere la mascherina un oggetto esteticamente accettabile, nonostante tutti gli sforzi prodotti per aggraziarla, stampandoci sopra la notte stellata di Van Gogh o incollandoci borchie da metallaro. L’espressione inglese “to polish a turd” rende bene l’idea della velleità di ogni tentativo di abbellimento.

Il cinema, per questa serie di motivi, sceglie dunque per il momento in grande prevalenza di ignorare la visibilità della pandemia. Se la presenza della mascherina nelle nostre vite diverrà persistente, il cinema dovrà probabilmente rassegnarsi a mostrarla, a meno di trasformarsi in un nuovo cinema dei telefoni bianchi, che (si) distraeva a parlare di amorucci borghesi mentre fuori stava arrivando la seconda guerra mondiale.

Ma dobbiamo rendere conto anche dei film che fanno la scelta opposta, quella di mettere la pandemia al centro della loro narrazione, ad esempio il criticatissimo Lockdown all’italiana (Enrico Vanzina, 2020), dove la mascherina diventa un’immagine promozionale, una metonimia per “Covid”; oppure il taiwanese The Falls (Pubu, Chung Mong-Hong, 2021), recentemente presentato al festival di Venezia, dove la quarantena è la molla narrativa che permette al regista di concentrarsi, al chiuso, su un rapporto madre-figlia.

Nei casi migliori, un film da pandemia è capace di far vedere cose che senza pandemia non si sarebbero potute osservare, sia per quanto riguarda le relazioni umane sia per gli elementi del paesaggio. È il caso dell’interessantissimo Molecole (Andrea Segre, 2020), dove Venezia e la sua laguna vengono finalmente lasciate in pace dagli uomini e dai vaporetti.

Nella sfasatura tra presente e racconto del presente si inserisce uno dei migliori film degli ultimi anni, Sesso sfortunato o follie porno (Babardeală cu bucluc sau porno balamuc, Radu Jude, 2021). Nella prima parte del film (il capitolo intitolato “Strada a senso unico”) la protagonista vaga per una Bucarest segnata dalla pandemia. La gente indossa la mascherina, che è “solo” un ennesimo elemento di perversione fra i tanti presenti lì fuori, nelle strade, dentro i negozi, fra gli scaffali dei supermercati.

La seconda parte del film (“Breve dizionario di aneddoti, simboli e meraviglie”) è un nuovo flaubertiano elenco di luoghi comuni. La definizione di “distanziamento sociale” è illustrata modificando il filmato di un vecchio ballo rumeno, ritoccato per tener lontani almeno un metro fra loro i ballerini. La terza parte mostra il processo popolare esercitato contro la protagonista, un’insegnante “colpevole” di essersi prestata a farsi filmare in un video pornografico.

La professoressa è stata riconosciuta nel filmato amatoriale nonostantefosse dotata di mascherina, non una mascherina chirurgica ma una maschera per gli occhi, provocante, carnevalesca, leopardata. Nel contesto del porno amatoriale, o più in generale – lo mostra un film come Eyes Wide Shut (Stanley Kubrick, 1999) – del gioco erotico, la maschera è un vettore di anonimato che consente la fuga dalla propria identità. L’insegnante, poi, si toglie la mascherina per camuffarsi in altro modo, indossando una parrucca. Ma è tutto vano. I suoi allievi, e soprattutto i genitori, la riconoscono comunque.

Sesso sfortunato o follie porno riesce a tenere assieme due forme simboliche centrali per il nostro tempo: il processo di mascheramento e smascheramento; e la pratica della condivisione dell’intimità, rappresentata dall’iperbole del porno amatoriale. Si tratta, in definitiva, di ragionare sull’osceno, su ciò che deve restare fuori scena, fuori dallo schermo, lontano dalla vista, sia esso un organo sessuale oppure una mascherina.

Riferimenti:

Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984.

(pubblicato originariamente su Tropico del Cancro. Culture critiche del presente il 10.09.2021, www.tropicodelcancro.net/cinegenia-della-mascherina)